Nel corso degli scavi di Pompei sono stati rinvenuti i resti di oltre mille vittime dell’eruzione del 79 d.C. Durante la prima fase eruttiva gli abitanti che non si erano allontanati in tempo dalla città rimasero intrappolati negli ambienti invasi da pomici e lapilli o furono investiti dai crolli provocati dal materiale eruttivo depositatosi fino a un’altezza di circa tre metri; di queste vittime si sono rinvenuti soltanto gli scheletri. Successivamente un flusso violento di materiale vulcanico ad alta temperatura investì Pompei a grande velocità, riempiendo gli spazi non ancora invasi dai materiali vulcanici e provocando la morte istantanea per shock termico di chi era ancora in città. I corpi di queste vittime rimasero nella posizione in cui erano stati investiti dal flusso e il materiale cineritico solidificatosi ne ha conservato l’impronta dopo la decomposizione.
Il metodo per eseguire i calchi delle vittime dell’eruzione fu ideato da Giuseppe Fiorelli, direttore degli Scavi di Pompei, nella seconda metà dell’Ottocento. Scavando nello strato di cenere indurita si accorse che in alcuni casi si incontravano dei vuoti, frutto della decomposizione delle sostanze organiche che vi erano rimaste intrappolate; fra queste c’erano anche i corpi degli individui soffocati. Versando del gesso liquido in questi spazi fu possibile portare alla luce queste impronte di gesso solidificato: i calchi. Essi conservano la forma reale degli individui, le loro fattezze, i gesti tragici della loro agonia.