Il mito di Medea non si è mai esaurito. Partendo dalla letteratura greca più antica, è arrivato a noi in innumerevoli interpretazioni letterarie, artistiche, musicali e cinematografiche.
La storia di Medea, legata a quella di Giasone e degli Argonauti, aveva come tutti i miti molte versioni, inizialmente trasmesse dai cantori. Fu poi messa per iscritto e a prevalere è stata la versione scelta da Euripide che, nella sua famosa tragedia, trasforma il mito modificandolo profondamente. La Medea di Euripide è una strega che tradisce la patria, fa a pezzi il fratello e uccide i figli, la grandezza dell’opera non ha lasciato scampo a Medea, diventata una figura immortale, ma negativa.
Nelle precoci testimonianze dell’epos argonautico in Etruria, Medea è invece rappresentata come curatrice e sacerdotessa, doti rispecchiate nel suo nome che deriva da medomai, un verbo che indica la capacità di occuparsi degli altri, di prendersi cura, di prevedere azioni e reazioni del prossimo, di possedere sagacia e astuzia, tutte facoltà che i Greci riassumevano nella parola metis.
In un’anfora di argilla depurata, prodotta in Etruria fra il secondo e il terzo venticinquennio del VII secolo a.C, compare una scena rarissima dove Medea, con una lunga treccia, affronta coraggiosamente il drago della Colchide, un lungo serpente con tre teste.
Nella famosa olpe di bucchero, della fine del VII secolo a.C., con i personaggi corredati di iscrizioni, Medea (Metaia) è una curatrice ritratta davanti a un giovane che fuoriesce da un calderone, il nome non è indicato, ma si tratta con ogni probabilità di Giasone. La sapiente donna della Colchide conosce le azioni necessarie a far ringiovanire le persone e, nel caso di Giasone, riesce a sanare le ferite inflitte dal drago. Nella scena trova posto l’inventore con le ali Dedalo (taitale) e gli Argonauti con la (kanna) un dono prezioso, forse la veste che hanno vinto nei giochi celebrati a Lemno o la vela che allude alla nave Argo. I due pugili in lotta rappresentano le gare che accompagnavano lo svolgimento dei riti sacri.
I due manufatti sono stati prodotti a Cerveteri che accoglieva i miti e le saghe greche e li rielaborava adattandoli alla cultura e alle usanze etrusche. Medea non è un’infanticida, ma una donna depositaria dell’arte di guarire, come gli Etruschi “preparatori di farmaci”, e di molteplici saperi, legata a una vicenda avventurosa nella quale si narra di un viaggio pericoloso. La ricca committenza aristocratica etrusca del VII secolo a.C. vedeva in queste figurazioni un’occasione per richiamare la capacità di solcare i mari, di avere scambi e commerci con regioni lontane e di ostentare il proprio rango con l’uso della scrittura.