Opere in mostra
L’Annunciazione
Dipinto su tavola, cm. 98×217, c. 1470
Galleria degli Uffizi, Firenze
Il dipinto è entrato agli Uffizi nel 1867 trasferito al demanio pubblico dalla chiesa fiorentina di San Bartolomeo a Monteoliveto a seguito delle soppressioni postunitarie del patrimonio delle congregazioni religiose. L’iniziale attribuzione a Domenico Ghirlandaio si è trasformata in quella, oggi universalmente accettata, in favore di un Leonardo ancora molto giovane, forse di ventidue o ventitré anni.
Un elemento stilistico sovente citato per giustificare la datazione ai primi anni Settanta del XV secolo, è la somiglianza del leggio sul quale la Vergine Annunciata stende il braccio, con la forma e con i decori vegetali presenti nel sepolcro in bronzo di Piero de’ Medici nella chiesa fiorentina di San Lorenzo: sepolcro ultimato e messo in opera da Andrea del Verrocchio nel 1472.
I difetti dell’impostazione prospettica, giustificabili con la relativa inesperienza del giovane pittore, sono stati spesso notati dalla critica anche se tutto ciò non inficia minimamente l’immersione delle figure in una atmosfera trasparente e luminosa che si apre verso remote distanze di montagne e di città. Il recente restauro di Alfio Del Serra, ha fatto emergere lo straordinario nitore della resa pittorica. Soprattutto indimenticabile è la rappresentazione del tappeto vegetale sul quale posa il volo dell’angelo. È una natura elastica vibrante, minuziosamente studiata in ogni minimo dettaglio, quella che Leonardo ha dipinto in primo piano, prefigurazione delle inesauste ricerche del Maestro sui prodigi della natura vivente vegetale e animale.
Madonna col Bambino (Madonna del Garofano)
Dipinto su tavola, cm. 62×47,5, c. 1473
Alte Pinacotek, Monaco
La Madonna è rappresentata in atto di offrire un rosso garofano al suo Bambino nudo che lo accoglie con festosa irruenza. Contro una loggia aperta si stende un vasto luminoso paesaggio montano, fatto di azzurre cime e di boschi.
Questo è forse il più fiorentino e “verrocchiesco” fra i dipinti di Leonardo. Per questo la paternità del dipinto, oggi saldamente e universalmente riconosciuta al Maestro, è a lungo oscillata fra Lorenzo di Credi e il Verrocchio stesso. Eleganza e sensibilità fiamminghe distinguono il sottile naturalismo che accarezza le vesti della Vergine e il mirabile paesaggio del fondo analizzato in ogni minimo dettagli. Ma è soprattutto la forte e quasi virtuosistica connotazione plastica, nel ventaglio di pieghe del manto della Vergine in primo piano, nel trattamento delle forme anatomiche, a orientare verso il Verrocchio scultore più raffinato e più “leonardesco”, all’altezza della Dama del mazzolino del Bargello (Marani, 1989). Per questo dipinto è dunque probabile una data molto precoce, intorno o poco dopo il 1473 quando il ventunenne Leonardo realizza le sue prima opere autonome ancora dentro la bottega del suo maestro Andrea del Verrocchio.
Ginevra de’ Benci
Dipinto su tavola, cm. 38,8×36,7, c. 1475
National Gallery of Art, Washington
Il dipinto, già nella collezione Lichtenstein di Vienna, è opera di Leonardo giovane, non ancora venticinquenne e ancora gravitante intorno alla bottega di Andrea del Verrocchio. Come certificano le fonti antiche (Antonio Billi, Anonimo Gaddiano, Vasari) Leonardo eseguì il ritratto di Ginevra de’ Benci la quale andò sposa nel 1474, a diciassette anni di età, a Luigi di Bernardo di Lapo Nicolini. È ragionevole pensare quindi che il ritratto sia stato realizzato per quella occasione, nel 1474 o poco dopo.
Del resto questo dipinto piccolo e prezioso è un repertorio di simboli onomastici e di lodi alla ragazza qui raffigurata. La vegetazione spinosa distesa dietro il volto della ritrattata, è una macchia di ginepro, pianta bene augurante ed allusiva al nome della donna. Sul retro del dipinto si intrecciano a formare uno stemma tre piante: un ramoscello di ginepro al centro, una fronda di alloro a sinistra, una palma a destra simboli rispettivamente di gloria (l’alloro) e di virtù (la palma). A commento del trofeo simbolico un cartiglio in latino dichiara “virtutem forma decorat” (la bellezza decora la virtù). Una finissima tecnica pittorica che rende evanescenti gli incarnati, caratterizza il dipinto.
La critica ha riconosciuto i debiti di Leonardo in questa sua fase giovanile nei confronti della pittura fiamminga soprattutto di Van Eyck certo conosciuta nelle collezioni dei magnati fiorentini (Gombrich, 1964; Salvini, 1984).
Adorazione dei Magi
Tavola disegnata a carbone, dipinta ad acquerello di inchiostro e parzialmente ad olio, cm. 243×246, 1481
Galleria degli Uffizi, Firenze
Restaurato di recente dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e riconsegnato agli Uffizi nel 2017, è un dipinto non finito perché Leonardo, trasferitosi a Milano nel 1482, lo lasciò incompiuto.
È un grande abbozzo, minuziosamente immaginato e trattato in ogni sua parte e che poteva prevedere, in corso d’opera, integrazioni e rettifiche. Invece di affidare le sue idee a disegni su carta, secondo la consuetudine dell’arte, Leonardo le consegna direttamente alla tavola già preparata per la stesura pittorica.
L’Adorazione dei Magi era destinata all’altare della chiesa di San Donato a Scopeto, chiesa officiata dai Canonici regolari di Sant’Agostino. Il pensiero teologico di Agostino che vedeva nell’Epifania l’universalità della chiamata estesa a tutti i popoli della terra, è dunque il tema dominante.
Leonardo immagina che una ondata umana si rovesci ai piedi della Vergine e si disponga intorno a lei con andamento circolare, come un gorgo acquatico che ha nel Bambino seduto in grembo alla Madre, il suo centro di attrazione e di riposo. Lo sfondo del dipinto, condotto sempre con la scioltezza grafica e la velocità esecutiva di un blocco di appunti, è gremito di episodi di varia natura. A destra ci sono scene di cavalli e di uomini che si confrontano in combattimento (idea germinale per il futuro affresco della Battaglia di Anghiari in Palazzo Vecchio di Firenze). A sinistra sono rappresentate architetture in parte in rovina e in parte in corso di restauro e di ricostruzione. Secondo gli studi recenti di Antonio Natali (2002, 2016) il tema è quello profetico di Isaia (Isaia 7, 14 e Isaia 60, 4, 6-7) sulla venuta di Cristo Salvatore destinato a portare la pace sulla terra e a costruire, sulle rovine del vecchio, il mondo nuovo.
San Girolamo penitente
Dipinto su tavola, cm. 103×75, c. 1480-82
Pinacoteca Vaticana, Roma
Sappiamo che la tavola apparteneva nel 1803 alla pittrice Angelica Kaufmann. Passò in seguito nella raccolta del cardinale Fesch, zio di Napoleone, per approdare, dopo la dispersione di quella straordinaria collezione, nei Musei Vaticani. Fu papa Pio IX a realizzare l’acquisto per la Pinacoteca negli anni fra il 1846 e il 1857.
La tavola, incompiuta, rappresenta San Girolamo che, in ginocchio, il corpo parzialmente scoperto, sta facendo penitenza nel deserto percuotendosi il petto con la pietra che tiene nella mano destra. Di fronte a lui c’è il leone, suo consueto simbolo iconografico. Tutto intorno uno scenario di rocce che incombono sul santo anacoreta e si moltiplicano sfumate nel lontano orizzonte. Nulla sappiamo della originaria destinazione del dipinto, né conosciamo le ragioni per cui il Maestro lo ha lasciato non finito.
La forte caratterizzazione naturalistica del volto e della anatomia del santo, i toni cromatici di nero e di ocra, la tecnica esecutiva veloce, corsiva, suggeriscono una data vicino o di poco posteriore alla Adorazione dei Magi degli Uffizi.
Madonna col Bambino (Madonna Benois)
Dipinto su tavola trasportato su tela, cm. 48×31, c. 1480-81
Ermitage, San Pietroburgo
Il dipinto è entrato nel Museo dell’Ermitage nel 1914. Non si conoscono vicende collezionistiche precedenti né possessori diversi dall’ultimo proprietario M.A. Benois. A meno che non si voglia dar credito alla romanzesca storia, riferita dal Benois al Liphart, conservatore delle collezioni imperiali russe, di un acquisto avvenuto nel 1824 ad Astrakan da parte di un antenato dell’ultimo proprietario che l’avrebbe comprata da suonatori ambulanti italiani. Più verosimile, anche se mai verificata, la provenienza dell’opera dalle collezioni dei principi Kurakini.
Il dipinto ha molto sofferto a seguito del trasporto su tela e le sue condizioni conservative non sono certo le migliori. Un tenero cerchio di affetti lega la Madonna al suo bambino e questa è una idea che ritroveremo nel cartone con Sant’Anna, la Vergine e il Bambino di Londra. A opere come questa devono molto le Madonne del periodo fiorentino di Raffaello (la Madonna del Cardellino, la Bella giardiniera). È possibile (Marani, 1989) che il dipinto sia stato pensato e impostato a Firenze prima della partenza di Leonardo per Milano e poi concluso in Lombardia.
La Dama con l’ermellino (Cecilia Gallerani)
Olio su tavola, cm. 54,8×40,3, c. 1488-89
Collezione Czartoryski, Cracovia
Una donna molto giovane, molto bella, di alto rango sociale come dimostrano l’acconciatura, i vestiti, i gioielli, non guarda verso di noi ma gira leggermente la testa come se la presenza o le parole di qualcuno l’abbiano improvvisamente distratta e insieme interessata. C’è qualcosa di appassionato e di inquieto nello scarto subitaneo di questa donna che “rompe” la posa con tenera veemenza. Fra le braccia stringe un ermellino, una piccola fiera viva, vibrante e crudele. Bisogna guardare da vicino la bestiola che la donna accarezza, lo splendore elettrico della bianca pelliccia, la grazia feroce del musino triangolare, per capire la grandezza di Leonardo quando studia e rappresenta la natura viva.
La Dama con l’ermellino (ormai gli studiosi non hanno dubbi sulla sua identità) è Cecilia Gallerani a forse diciannove o venti anni di età. Apparteneva alla élites aristocratica della Milano di quegli anni e fu l’amante del duca Ludovico Sforza detto il Moro al quale diede un figlio. I documenti ci dicono che Cecilia frequentava la corte e che fu in intimità col Signore di Milano per alcuni anni. Qui si limita ad accarezzare il suo duca, l’uomo che amava ma che sapeva di non poter sposare. Infatti la bestiola che Cecilia tiene in grembo è Ludovico il Moro stesso il quale, nel 1488, era stato insignito dal re di Napoli dell’ordine cavalleresco dell’Ermellino. Il dipinto, documentato nella collezione dei principi Czartoryski fin dalla fine del Settecento, fu probabilmente comprato in Italia.
Ritratto di dama (La Belle Ferronière)
Dipinto su tavola, cm. 63×45, c. 1495-1500
Louvre, Parigi
Nella serie dei ritratti milanesi di Leonardo questo viene dopo il Musico della Ambrosiana e la Cecilia Gallerani di Cracovia (Marani, 1989) collocandosi negli ultimi anni del XV secolo. Come il Musico dell’Ambrosiana, anche la Dama del Louvre ha faticato a veder riconosciuto la piena autografia di Leonardo, autografia oggi pressoché universalmente accettata. In passato (Suida, 1929) si è anche pensato a un ritratto concepito e impostato dal Maestro, poi concluso da un allievo, forse dal Boltraffio.
È straordinaria la sottigliezza ottica e la presa mimetica totale (certo memore di esempi dalla pittura fiamminga e forse da Antonello da Messina) con cui Leonardo descrive le forme e lo splendore dei gioielli, la consistenza tattile dei panni, la luminosa levigata bellezza di questa giovane donna. Leonardo ha concepito il suo ritratto come una scultura quasi invitandoci a girarle intorno (Kemp, 1988). Come nella Cecilia Gallerani la donna è interessata da un leggero movimento rotatorio. Indimenticabile lo sguardo sfuggente, mobile, di questa affascinante signora di cui ad oggi non si è ancora scoperta l’identità, oscillando le proposte degli studiosi fra Cecilia Gallerani, Beatrice d’Este, Lucrezia Crivelli.
Ritratto di musico
Dipinto su tavola, cm. 44,7×32, c. 1488-89
Pinacoteca Ambrosiana, Milano
Il dipinto è documentato per la prima volta all’Ambrosiana nel 1672. Probabilmente è arrivato in questa sede con la donazione del cardinale Federico Borromeo, fondatore e promotore della Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana. Incerta è l’identificazione del personaggio. Si è pensato a Franchino Gaffurio che fu maestro di Cappella nel Duomo di Milano dal 1484. L’attribuzione a Leonardo, oggi universalmente accettata, si è imposta con qualche difficoltà. Alcuni hanno pensato a un’opera di collaborazione iniziata e impostata da Leonardo e conclusa da qualcuno dei suoi allievi come il De Predis o il Boltraffio. Analisi scientifiche recenti hanno dimostrato che la mano del ritrattato che regge il cartiglio è stata aggiunta in un secondo tempo con pigmento e leganti diversi. Da ciò l’ipotesi di un collaboratore (Boltraffio?) che ha concluso l’opera avviata dal Maestro. Nulla vieta di credere, tuttavia, che l’integrazione sia stata realizzata da Leonardo stesso. Resta la qualità altissima di questo dipinto memore di modelli fiamminghi ma sensibile soprattutto alla lucidità ottica di Antonello da Messina il quale, documentato a Milano nel 1475, vi ha lasciato opere oggi perdute che probabilmente Leonardo ha avuto modo di vedere.
Ritratto di donna (La Gioconda o Monna Lisa)
Dipinto su tavola, cm. 77×53, c. 1501-03
Louvre, Parigi
È uno dei quadri più celebri del mondo, vera e propria icona dell’immaginario turistico universale, eppure pochissime sono le notizie certe riferite a quest’opera. Sappiamo da Cassiano del Pozzo (1625) che il dipinto venne acquistato dal re di Francia Francesco I per la cifra incredibilmente alta di ben quattromila ducati d’oro. Mentre Giorgio Vasari nella prima edizione della “Vite” diede alla donna che vi è rappresentata il nome con il quale è universalmente nota: “prese Leonardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Monna Lisa sua moglie, e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto, la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontainebleau”.
Ciò nonostante, l’identificazione della ritrattata con Monna Lisa di Francesco del Giocondo, per quanto probabile, non è per nulla certa. Qualcuno (Pedretti, 1957) ha creduto di riconoscervi le sembianze di Pacifica Brandano, favorita di Giuliano de’ Medici protettore di Leonardo durante il suo soggiorno romano fra il 1513 e il ’15.
Anche la cronologia è incerta. Orienta verso una datazione ai primi anni del XVI secolo, il fatto che Raffaello, a Firenze fra il 1504 e il 1508, cita la positura del busto e la sovrapposizione delle mani della Gioconda, nel ritratto di Maddalena Doni della Galleria Palatina, databile al 1506. È probabile (Kemp, 1981) che Leonardo abbia avviato il dipinto a Firenze per poi perfezionarlo e concluderlo in Francia. Condotto con una tecnica perfetta per sottolissime velature sovrapposte, il Ritratto di Monna Lisa ha affascinato generazioni di critici e di letterati per il sorriso enigmatico e per l’immersione della figura nella vasta natura vivente vibrante di infiniti fremiti luminosi.
Il Cenacolo
Pittura murale, cm. 460×880, finito nel 1498
Refettorio di Santa Maria delle Grazie, Milano
Di fronte al Cenacolo milanese di Leonardo, la prima cosa di cui è necessario essere consapevoli è lo stato estremamente diminuito con cui questo capolavoro è arrivato fino a noi. Invece di usare i modi del “buon fresco” fiorentino, Leonardo, al fine di ottenere effetti naturalistici di particolare suggestione, mise in opera una tecnica particolare che prevedeva l’uso della tempera mista ad olio. Da ciò un processo di progressivo degrado che ha obbligato ad intervenire generazioni di restauratori, dai maestri del Settecento ai moderni Cavenaghi e Pelliccioli fino a Pinin Brambilla autrice, fra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, dell’ultimo grande intervento. Di fatto è giusto dire che fra cadute di colore, integrazioni e rifacimenti, forse meno del 50% della pittura originale di Leonardo è presente sulla parete di Santa Maria delle Grazie.
Il tema iconografico è consueto nei refettori conventuali o monastici. Più della istituzione della Eucarestia, il dipinto leonardesco rappresenta il momento nel quale Cristo dice “Uno di voi mi tradirà”. Le parole di Cristo provocano negli Apostoli seduti a mensa, stupore ed agitazione, una serie di movimenti insieme fisici e psicologici. Le figure degli Apostoli si raggruppano a tre a tre ed è come se una tempesta spirituale agitasse i pensieri e i sentimenti dei presenti.
Fu il signore di Milano Ludovico il Moro a volere e a finanziare l’intervento di Leonardo nel refettorio di Santa Maria delle Grazie sollecitando la conclusione dell’affresco che avvenne (la testimonianza è di Luca Pacioli) nel 1498. Sopra l’Ultima Cena sono infatti ben visibili gli stemmi sforzeschi entro ghirlande di fiori e frutta. Gli stemmi furono riportati alla luce nel 1854 in occasione del restauro di Stefano Barezzi.
La Vergine delle Rocce
Dipinto su tavola, cm. 199×122, c. 1483-86
Louvre, Parigi
Le vicende di questo celebre dipinto sono fra le più complicate e controverse nella biografia e nella storia critica di Leonardo da Vinci. L’unico dato certo è l’affidamento dell’opera a Leonardo e ai fratelli Ambrogio ed Evangelista de’ De Predis il 25 Aprile 1483, da parte della Confraternita della Concezione per una cappella nella chiesa milanese, oggi non più esistente, di San Francesco Grande. In una supplica inviata a Ludovico il Moro fra il 1491 e il ’93, Leonardo e Ambrogio de’ Predis chiedono un pagamento supplementare per la pala, dipinta dal maestro toscano nella parte centrale e dal de’ Predis nei pannelli laterali (oggi alla National Gallery di Londra) raffiguranti angeli musicanti.
Resta un mistero, oggetto di numerose proposte, l’arrivo del dipinto in Francia dove è visto da Cassiano Del Pozzo nel 1625 nella Reggia di Fontainbleau. È opinione di molti studiosi che il dipinto sia stato inviato da Ludovico il Moro come dono a Massimiliano d’Asburgo per le nozze di questi con Bianca Maria Sforza. Da qui, dalla corte imperiale di Innsbruck, il dipinto sarebbe arrivato in Francia quando Eleonora, figlia di Massimiliano, andò sposa a Francesco I, re di Francia.
Il tema iconografico del dipinto è quello leggendario dell’incontro nel deserto fra Cristo bambino e San Giovannino. Gesù che la Madonna abbraccia con la mano destra e stringe a sé, ha di fronte San Giovannino benedicente. L’Angelo indica con la mano destra Cristo Salvatore. L’episodio è inserito in un paesaggio di rocce abitate da vegetazione lussureggiante e attraversate da luci contrastanti. Dai varchi aperti nel paesaggio geologico emergono remote catene montagnose. Ancora memorie fiorentine, specie nell’angelo indicante, sono presenti in questo dipinto che si colloca al centro del periodo milanese di Leonardo.
La Vergine delle Rocce
Dipinto su tavola, cm. 189,5×120, inizio XVI sec.
National Gallery, Londra
Variante, probabilmente successiva nel tempo, della Vergine delle Rocce del Louvre, ne riproduce il modello iconografico. La Madonna stringe a sé il Bambino abbracciandolo con la mano destra. Un angelo introduce nella sacra conversazione, il piccole San Giovannino benedicente. Il tutto è inserito in uno scenario geologico di rocce aperte su un lontano paesaggio di distese equoree, e di azzurre montagne che sfumano nell’atmosfera.
Pervenuto alla National Gallery di Londra nel 1880, il dipinto era appartenuto a Gavin Hamilton che l’aveva acquistato dalla congregazione di Santa Caterina della Ruota, erede dei diritti e delle proprietà della soppressa Confraternita della Concezione di Milano, la stessa che aveva commissionato a Leonardo e ai fratelli De Predis la tavola oggi al Louvre. Controversa è la datazione di questo dipinto nel quale Leonardo si impegna in una rappresentazione eroica, monumentale delle figure con emersione in primo piano dei sacri protagonisti e conseguente arretramento del fondo paesistico. La collaborazione di Ambrogio de’ Predis avanzata da molti, è stata categoricamente esclusa da Carlo Pedretti (1973) che riconosce nella pala londinese, l’autografia piena ed esclusiva di Leonardo. Per tutte queste ragioni e soprattutto per la piena affermazione nel percorso del Maestro di uno stile ormai improntato al Rinascimento maturo, la data più probabile si colloca fra gli ultimi anni del Quattrocento e i primo del XVI secolo.
Testa di fanciulla (la Scapigliata)
Terra d’ombra e biacca su tavola, cm. 27,7×21, c. 1500
Pinacoteca Nazionale, Parma
È una delle opere più misteriose e controverse di Leonardo. Conosciuta da sempre con il nome de La scapigliata per i capelli della ragazza agitati dal vento, sappiamo che è entrata nell’Accademia di Belle Arti di Parma nel 1839. La offrivano, con il nome di Leonardo, gli eredi del pittore parmense Gaetano Callani. Questo ha fatto pensare a una contraffazione di età moderna realizzata dallo stesso Callani. Tale ipotesi è poi caduta e oggi la generalità della critica non dubita della autografia di Leonardo a una data intorno o poco dopo il 1500. Carlo Pedretti (1983-1985) il più autorevole studioso contemporaneo di Leonardo, colloca l’opera in relazione con la corte di Mantova e con la marchesa Isabella d’Este di cui è documentato il desiderio di possedere, nella sua collezione, qualche dipinto del maestro toscano. Nel 1627, in un inventario di casa Gonzaga si cita “un quadro dipintovi la testa di una donna scapigliata, bozzata… opera di Leonardo da Vinci”. Questo dipinto deve essere stato visto dai pittori lombardi di pieno Cinquecento, come dimostrano le puntuali derivazioni riscontrabili nell’opera di Bernardino Luini (Marani, 1979).
San Giovanni Battista
Dipinto su tavola, cm. 69×57, c. 1513-16
Louvre, Parigi
Quando nel 1517 Antonio de Beatis si reca in visita a Leonardo nel castello di Cloux ad Amboise, nota e cita presenti nello studio del pittore, tre quadri. Uno è la Madonna col figlio posti in grembo ad Anna (il dipinto su tavola oggi al Louvre), un altro è il ritratto “di una certa donna fiorentina facta di naturale ad istantia del quondam magnifico Juliano de’ Medici” (con ogni probabilità la Gioconda), il terzo è un San Giovanni Battista giovane. Quest’ultimo è il dipinto che, dopo varie vicissitudini, arrivò nelle reali collezioni del Louvre prima del 1666, al tempo di Luigi XIV, probabilmente per interessamento del cardinale Mazzarino.
San Giovanni è raffigurato di tre quarti, la mano destra protesa in avanti a indicare verso l’alto, il volto inclinato a sinistra, Ne viene il movimento spiraliforme della figura totalmente immersa nel medium atmosferico. Le analisi scientifiche compiute sul dipinto (radiografie, riflettografie) hanno dimostrato una condizione pittorica di assoluta eccellenza tecnica basata su velature leggerissime, quasi senza traccia di pennello, con minima materia pittorica. La datazione dell’opera oggi più accreditata, la colloca fra il secondo periodo milanese e il periodo romano, preferibilmente fra il 1513 e il 1516.
Bacco
Tavola trasferita su tela, cm. 177×115, c. 1510-13
Louvre, Parigi
La mutazione iconografica (da Bacco a San Giovanni Battista nel deserto) potrebbe essere avvenuta essendo vivo ancora Leonardo. Secondo l’opinione di Carlo Pedretti (1973) condiviso da gran parte della critica contemporanea (Marani, 1989) dovrebbe trattarsi di un’opera solo in parte autografa di Leonardo, da lui impostata e portata a termine da allievi.
Sant’Anna, la Madonna, il Bambino con l’agnello
Dipinto su tavola, cm. 168×130, c. 1513
Louvre, Parigi
Il dipinto fu visto nell’Ottobre del 1517 da Antonio de Beatis nello studio di Leonardo nel Castello di Cloux, ad Amboise. In seguito, portato in Italia con l’eredità presto dispersa di Francesco Melzi, fu scoperto, nel 1629, a Casale Monferrato dal cardinale Richelieu che ne fece dono (1636) al re di Francia Luigi XIII.
Leonardo ha meditato a lungo sul tema della Sacra Famiglia e in particolare sulle donne (la nonna Anna, la madre Maria) che vigilano con amore e trepidazione sul piccolo Gesù. Il primo pensiero, a una data intorno al 1500, Leonardo lo aveva espresso nel cartone con Sant’Anna, la Vergine, Gesù e San Giovannino oggi alla National Gallery di Londra.
In questo dipinto, l’iconografia della Sacra Famiglia subisce una ulteriore evoluzione. Non c’è San Giovannino ma al suo posto c’è l’agnello figura simbolica del sacrificio di Gesù (l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo). Gesù Bambino abbraccia l’agnello quasi prefigurando il suo destino di vittima sacrificale. La Madonna che di questo è consapevole, stringe a sé il figlio come per allontanarlo dalla sua sorte. Ma Sant’Anna che è figura della Chiesa, vigila affinché il sacrificio di Gesù si compia e, con quello, la redenzione del genere umano. Le figure sono interessate da un movimento circolare, rotatorio, di impianto già pienamente manierista contro un vasto paese caratterizzato da rocce scintillanti, da nebbie, da distese equoree.
Come sostiene Pietro Marani (1989) un dipinto come questo sarebbe difficile da spiegare senza gli studi di Leonardo sulle figure in movimento nello spazio, senza le ricerche preparatorie per il perduto affresco della Battaglia di Anghiari nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio di Firenze.