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Trieste e la Galleria nazionale d’arte antica

Il volto culturale di una città

Storia e geografia di una realtà cosmopolita Trieste appare agli italiani, per la posizione al vertice settentrionale del mare Adriatico – incuneata verso la parte centro orientale slava e germanica del continente, ma anche per la sua architettura fin de siècle che in buona parte la caratterizza – con i tratti della città tipicamente nordica; di converso, essa rappresenta per gli europei del centro e del nord soprattutto il primo impatto con la luminosità mediterranea. La “strada per Vienna”, come si chiama tuttora, arriva a Trieste proprio sul soprastante “balcone” naturale di Opicina, affacciato a strapiombo sul mare, che offre al viaggiatore uno sguardo vastissimo – oltre che sulla città distesa ad assecondare la curvatura del golfo – verso le ondulate sporgenze della penisola istriana ad est e verso la laguna di Grado e, più in là, quella di Venezia ad ovest, ma soprattutto in direzione del mezzogiorno, occupato tutto dal chiarore del mare, che si allunga in direzione nord-sud tra la penisola italiana e la frastagliata costiera dell’Istria e della Dalmazia.

L’antica Tergeste romana, passata poi all’Impero bizantino e ai Franchi, divenuta quindi dominio vescovile e poi libero comune, si sviluppa sotto la sovranità austriaca per oltre cinque secoli, dal 1382 al 1918, quando al termine della prima guerra mondiale l’Impero asburgico si sfalda e la città passa al Regno d’Italia.

Determinante per il suo sviluppo è, nel 1717, la proclamazione a “porto franco” da parte di Carlo VI d’Asburgo, che decide di fare della città il principale sbocco al mare dell’Impero d’Austria. Ulteriore incremento allo sviluppo commerciale viene dall’imperatrice Maria Teresa, figlia di Carlo VI, che, continuando la politica di sviluppo della città e del suo porto, fa della nuova Trieste una palestra per gli architetti dell’Impero asburgico.

La città, che all’inizio del XVIII secolo conta poche decine di migliaia di abitanti, a seguito di questo disegno politico-economico attira via via sempre più traffici, imprenditori, lavoro da ogni parte dell’area mediterranea e del centro est europei sino a giungere, alla fine dell’Ottocento, a 200.000 abitanti. Le popolazioni immigrate da tanti altri Paesi, per conservare e usare la propria lingua d’origine, le proprie tradizioni culturali e i propri credo religiosi si riuniscono in comunità, che lasciano segni importanti per qualità architettonica e per il valore di convivenza che esprimono.

Importante fra queste è la comunità armena, che da Venezia giunge a Trieste nella prima metà del Settecento. A Venezia, nel 1717, la Repubblica Serenissima offre all’abate Mechitar di Sebaste (arm. Mxithar, “consolatore”) – in fuga da Costantinopoli dove aveva fondato nel 1701 la congregazione che da lui prese il nome di mechitarista – l’isola lagunare di San Lazzaro, divenuta poi “degli armeni”. Questo luogo particolarissimo, arricchito con nuovi edifici e preziosi giardini, è da subito, ed è tuttora, un centro spirituale e culturale di primaria importanza, custode della lingua, della letteratura, delle tradizioni e dei costumi del popolo armeno.

A Trieste la comunità armena, ottenuta la cittadinanza austriaca dall’imperatrice Maria Teresa, acquista case e terreni in contrada dei Santi Martiri per farne il proprio cenobio, dotato di seminario con annessa stamperia poliglotta e di una piccola cappella denominata Santa Lucia degli armeni. Allontanati in epoca napoleonica, i monaci mechitaristi ritornano a Trieste con l’autorizzazione imperiale nel 1846 e iniziano a costruire sul colle di San Vito, grazie anche al contributo del ricco commerciante armeno Gregorio Ananian, la chiesa della Beata Vergine delle Grazie, oggi non più officiata, consacrata il 1 maggio 1859 ed unita ad un collegio-convitto con ginnasio e scuola in lingua italiana, attivo fino al 1875. Qui si sviluppa il cosiddetto borgo armeno, con case e giardini con una bellissima vista sulla città e sul golfo; della comunità fanno parte importanti personaggi, tra cui Giacomo Luigi Ciamician (Trieste 1857 – Bologna 1922), fondatore della moderna fotochimica sperimentale, profeta dell’energia solare e delle energie alternative, a cui è intitolato il Dipartimento di chimica dell’Università degli studi di Bologna.

Altre comunità che a partire dalla istituzione del “porto franco” arricchiscono la vita economica e culturale di Trieste e l’architettura della città in continua crescita sono quella greco-ortodossa, con la chiesa di S. Nicola, quella serbo-ortodossa, con la chiesa di S. Spiridione, quella luterana evangelica, con una svettante chiesa neogotica e quella ebraica, con la sinagoga degli architetti Ruggero e Arduino Berlam.

I vari stili architettonici, grazie anche alla varia provenienza di imprenditori e lavoratori, in un luogo per di più al confine tra le tre principali culture del continente europeo, quella latina, quella germanica e quella slava, trovano a Trieste, soprattutto nel corso dell’Ottocento e sino alla prima guerra mondiale, numerosissime occasioni per manifestarsi. Notevoli sono gli esempi di palazzi in stile neoclassico, neorinascimentale ed eclettico, liberty, che ospitano le più ragguardevoli famiglie borghesi, ma anche sedi di società importanti in campo assicurativo, quali le Assicurazioni Generali, e nel settore marittimo, quali il Lloyd Austriaco, poi divenuto Lloyd Triestino, solo per citare le maggiori aziende.

L’incrociarsi di etnie, di culture, di religioni e il crescente sviluppo economico, che porta all’affermazione di una ricca borghesia, è il presupposto per il successo di un accrescimento culturale quanto mai vivo, strettamente legato ai maggiori movimenti artistici europei. Qui creano le proprie opere Italo Svevo e Umberto Saba, mentre James Joyce inizia a scrivere il suo Ulisse. Proprio questo cosmopolitismo, frutto della sua vocazione mercantile e commerciale nonché dell’influenza diretta della geografia e della storia, fa di Trieste, oggi, la più “diversa” delle città italiane.

Società e collezionismo fra Settecento e Novecento

In questo vivace contesto emergono i più vari interessi collezionistici, nascono e crescono le raccolte di intenditori e amatori, espressione del nuovo capitalismo ottocentesco: sono coloro che, tra l’altro, daranno vita, con le loro donazioni, ai civici musei cittadini. Un tessuto dalla trama fitta i cui protagonisti solo in anni recenti sono stati oggetto di studi e di ricerche, che hanno evidenziato la ricchezza delle opere raccolte e il gusto dei conoscitori e collezionisti, ma anche il destino, spesso non felice, che ha visto in molti casi la dispersione dei beni o la perdita, se non di capolavori, certamente di grandi patrimoni, mai recuperati, che contribuivano a dare alla città la sua più fulgida immagine.

Prima vistosa espressione del collezionismo triestino fu lo sfarzo e il lusso di beni d’arte d’ogni genere e di “curiosità” di cui si circondò il “faccendiere” siriano Antonio Pompeo Cassis Faraone (Damasco 1745 – Trieste 1805), acquirente nel 1790 di villa Necker, le cui raccolte andarono però disperse nei decenni successivi alla sua morte. Nei tempi successivi, lo spirito collezionistico si muove in direzione della temperanza Biedermaier, agiata ma composta, in cui la cultura, valore proprio della società liberale e borghese, si esprime anche attraverso importanti raccolte librarie, oltre che nelle conversazioni dei caffè: luogo simbolo, questo, della vivace socialità triestina, dove l’affabile colloquio sulle novità provenienti da ogni parte del mondo e sulla vita della città si unisce tanto alla conversazione sulla letteratura e il teatro quanto alle trattative commerciali. La cultura, i traffici, le discussioni di salotto, i quotidiani uffici del lavoro, le regole di bienséance e i luoghi sociali dove questi aspetti prendevano corpo costituivano un tutt’uno inscindibile che era l’anima stessa di Trieste.

Nel 1810 Domenico Rossetti, bibliofilo e donatore alla città della sua vastissima raccolta libraria su Francesco Petrarca e Enea Silvio Piccolomini, istituisce la Società di Minerva, luogo di raccolta del mondo culturale, ma è a partire dal terzo decennio dell’Ottocento che si sviluppa, sempre più vertiginosamente, il collezionismo triestino, divenendo quasi un fatto identitario della città: proprio la Minerva presenta nel 1830 la sua prima ancorché piccola esposizione di belle arti.

La vocazione a raccogliere dipinti – nello sviluppo vorticoso dell’attività di vendita di mercanti e botteghe d’arte e nel crescente desiderio del cosmopolitismo imprenditoriale di avvicinarsi ai maggiori movimenti artistici del momento per godere di quel benessere dato anche dal possesso della bellezza – trova un punto fermo l’anno 1840 nella costituzione della “Società di Belle Arti di Trieste”, nata grazie al contributo, tra gli altri, di Domenico Rossetti, Pasquale Revoltella e Michele e Giovanni Guglielmo Sartorio. Si tratta, nella concretezza del costume imprenditoriale, quasi di una razionalizzazione necessitata dal moltiplicarsi delle esposizioni che animavano la vita cittadina e che al contempo stavano a dimostrare il livello decisamente alto della conoscenza in campo artistico della ricca borghesia imprenditoriale di Trieste. Le mostre promosse dalla Società fino al 1847 a loro volta dettano il gusto collezionistico cittadino e nel contempo offrono un trampolino di lancio agli artisti locali, oltre che presentarne di già ben affermati, Francesco Hayez in testa.

L’espressione più fedele delle aspirazioni diffuse tra la borghesia mercantile nell’epoca d’oro della città trova la sua più compiuta manifestazione nell’interno domestico, lo sfondo su cui numerose famiglie, arrivate da luoghi diversi, amavano condurre la loro vita, ma anche curavano decorare con le tele, le sculture, le suppellettili più ricercate, secondo un gusto di importazione anglosassone e francese. Ma basti pensare al massimo prestigio della nobile presenza del fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe, l’arciduca Massimiliano d’Asburgo, che nel castello di Miramare raccoglie molte opere della sua contemporaneità: maestri italiani, austriaci, tedeschi, ungheresi molto noti nel mondo austriaco ed esponenti di quell’accademismo, e non solo, tipico dell’epoca: acquisti fatti da Massimiliano e sua moglie Carlotta del Belgio proprio in quelle esposizioni che promuovevano i giovani artisti a Trieste. Senza dire d’altri numerosissimi interessi culturali e naturalistici, il giovane arciduca d’Austria, pur nel riserbo della sua dimora, lontana e separata dalla città, si allinea ai gusti del tempo nell’interesse per l’esotico, con la sorprendente qualità d’acquisti che nuovi studi ora dimostrano in tutti i loro aspetti.

In competizione con il principe asburgico, non meno che in amicizia per quanto richiesto dalle convenzioni sociali, si pone il barone Pasquale Revoltella (Venezia 1795 – Trieste 1869), nobile di fresco lignaggio, che rivaleggia costruendo una residenza di lusso, il palazzo, opera del berlinese Friedrich Hitzig, posto in prossimità del porto, ma anche raffinato e sontuoso contenitore d’arte, decorato con i capolavori del momento.

Il collezionismo entra anche nelle case della borghesia agiata come i Sartorio nella loro villa neoclassica, con una variegata gamma di ambienti e stili, che rappresenta forse nella maniera più completa le abitudini, i gusti e la cultura di questa classe. Da questa tradizione famigliare discenderà quella collezione che rappresenta l’immagine della città ricca, ma discreta; una società in cui un esponente della borghesia, non meno ricca che colta, è in grado, senza il supporto di un conoscitore d’arte specializzato nel mestiere, di riconoscere in un semplice taccuino conservato da un rigattiere un bene preziosissimo: fu Giuseppe Sartorio (Trieste 1838 – 1910) ad avere la capacità di attribuire alla mano del più grande pittore veneziano del Settecento, Giambattista Tiepolo, un cospicuo numero di fogli messi in vendita dall’antiquario triestino Giuseppe Zanolla: si tratta di una tra le più importanti raccolte nell’ambito del corpus grafico della pittura veneta settecentesca, sia per il considerevole numero di pezzi, 254 fogli, sia perché, coprendo tutto l’arco cronologico dell’arte di Giambattista Tiepolo, si configura come un insieme di grande importanza per lo studio dell’opera del maestro. I disegni del Tiepolo passano nel 1910 alla Città di Trieste con la villa di famiglia e tutta la collezione d’arte che vi era conservata, grazie al legato di Paolina e Anna Segrè Sartorio.

Questa educazione al bello si diffonde rapidamente nel tessuto sociale dell’alta borghesia e della nobiltà locale portando alla costituzione di importanti nuclei di opere sia antiche sia contemporanee che confluiranno in molti casi nelle istituzioni pubbliche, musei e gallerie, destinate alla fruizione di tutti. Accanto alla residenza, creata dall’architetto di fama e decorata dai migliori artigiani, le opere raccolte diventano esternazione del potere, ma anche della forza di rappresentazione nella società imprenditoriale. Contestualmente si sviluppano forme di mecenatismo e di filantropia destinate a conservare nel tempo la memoria del benefattore.

La nuova “Società di Belle Arti” che nasce alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, raccolti 524 soci, inaugura il 16 maggio 1870 la sua prima esposizione con 274 dipinti e 12 sculture provenienti da ogni regione d’Italia e dell’Impero. Chiusi i battenti poco dopo il 1880, l’associazione fu presto succeduta dal Circolo Artistico di Trieste, votato dagli artisti stessi all’aspetto creativo ma influente anche per il collezionismo, i cui primi presidente e vicepresidente furono i pittori Giuseppe Lorenzo Gatteri e Eugenio Scomparini: la sua prima esposizione fu presentata nel 1890. Non c’è bisogno di dire che, fra le mille esposizioni triestine, la più rappresentativa è però la sala che la Biennale di Venezia dedica a Trieste nel 1910.

In questo contesto accanto alle famiglie e agli intenditori, si affiancano le raccolte degli istituti di credito, quale ad esempio la Cassa di Risparmio di Trieste o le case di assicurazioni, come le Generali o il Lloyd Adriatico, che acquistano con il primo fine di valorizzare la produzione locale di livello nello spirito della conservazione dei valori del territorio nonché gli istituti pubblici per arricchire le raccolte ricevuto in dono o crearne di nuove.

La Galleria nazionale d’arte antica

Nel solco di questo retroterra storico, culturale e sociale – pur nella profonda mutazione della storia di Trieste dopo la seconda guerra mondiale, quando la città è occupata dalle truppe anglo-americane (1945-1954) ed è contesa fra l’Italia e la Jugoslavia, nel doloroso scontro fra ideologie e popoli, fra democrazia e dittatura, tra mondo latino e mondo slavo – si svolge la vicenda della Galleria nazionale d’arte antica, che si forma nel 1955 grazie ad un primo acquisto da parte dello Stato italiano di opere d’arte dalla famiglia del senatore Pietro Mentasti e si completa con una successiva acquisizione nel 1957 per un totale di 49 dipinti su tela, su rame e su tavola.

Pietro Mentasti (Treviglio 1897 – Monza 1958), protagonista dell’ambiente culturale veneziano negli anni Trenta con la sua galleria d’arte contemporanea “L’Arcobaleno”, e raffinato cultore di pittura antica, vicino a critici ed artisti importanti, si avvale dell’ausilio dei maggiori storici dell’arte italiani del Novecento, quali Roberto Longhi, Carlo Ludovico Ragghianti, Francesco Arcangeli, Rodolfo Pallucchini e Giuliano Briganti, per formare ed accrescere la sua raccolta, garantendone così la raffinata qualità, oltre che la preziosa ricercatezza.

A promuovere l’acquisto della collezione Mentasti è Benedetto Civiletti, dal 1952 Soprintendente ai monumenti, alle gallerie e alle antichità, nel contesto di una vivace attività volta alla rinascita civile e culturale di Trieste, duramente provata dal conflitto bellico. La Galleria nazionale d’arte antica di Trieste apre al pubblico il 14 dicembre 1957, in occasione della settimana nazionale dei musei, nelle sale del Castelletto del parco di Miramare. Sentiva Civiletti che era necessario dotare la città di Trieste – ricca di espressioni artistiche dell’Ottocento e del Novecento, epoche corrispondenti al suo grande sviluppo, ma povera di pittura rinascimentale e barocca – di una galleria d’arte antica: “una lacuna quanto mai evidente”, diceva Civiletti nel discorso inaugurale, perché per poter ammirare opere del Cinquecento e del Seicento, per non dire delle epoche precedenti, i triestini dovevano recarsi almeno a Venezia. Annotava egli nel seguito del discorso che “l’occasione si presentò quando si venne a conoscenza che una notevole raccolta privata, ben conosciuta agli studiosi, era sul punto di essere smembrata e dispersa. Furono intavolate trattative, fu interpellato il Consiglio superiore delle belle arti e, infine, con pronta intuizione e generoso gesto il Commissario generale del Governo per il Territorio di Trieste volle dotare la città di questa nuova ricchezza”.

L’origine della Galleria nazionale manifesta chiaramente la sua origine da una raccolta privata, plasmata sul gusto personale e sugli interessi del collezionista, ma anche condizionata dalle sue possibilità economiche e dalle occasioni offerte dal mercato artistico. Non intende infatti presentare, ad esempio, l’evoluzione di una scuola pittorica, come accade molto spesso nei musei d’arte antica, che “raccontano” la produzione artistica del territorio al quale appartengono, ma è finalizzata al puro piacere di chi ne dispone con essa arricchisce gli ambienti in cui vive. Per questo la Galleria nazionale d’arte antica di Trieste risulta di natura composita, senza un comune filo storico artistico, in quanto le opere appartengono ad ambiti geografici, culturali e cronologici diversi, privi di confronti e rimandi tra i dipinti: e forse proprio questo la rende più liberamente godibile ed oggetto, come per chi la formò, di puro godimento e piacere.

Nell’occasione di presentare per la prima volta all’estero questa preziosa raccolta, si è pensato di darne una delle letture possibili, attraverso la sistemazione per temi, quali utile spunto per sviluppare la curiosità verso il vastissimo contesto che diede origine a queste opere della fantasia e del genio di pittori italiani ed europei lungo tre secoli di storia.