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I temi dell’esposizione

L’invenzione della scena di genere: Il paesaggio o “veduta” e la natura morta

Durante il Seicento, la rappresentazione della natura o “vedutismo” si afferma come soggetto indipendente. L’interesse artistico per il paesaggio nasce da un generale interesse sentimentale per la natura come conseguenza del progressivo distanziarsi dell’uomo moderno da essa e di una nostalgia per la sua perdita. L’amore per la bellezza naturale è sempre nostalgia per qualcosa che si è perduto; sono infatti le epoche, le civiltà e i ceti che non hanno più un rapporto diretto e quotidiano con la natura a elaborarne la percezione estetica (A. Muliere, 2019). Durante i secoli precedenti, grandi maestri come Vittore Carpaccio, Giovanni Bellini, Leonardo, Palma il Vecchio, Tiziano o Jacopo Bassano si erano dimostrati pionieri nello sperimentare e interpretare architetture e paesaggi, spesso raffigurandoli più come protagonisti che come semplici fondali; vere e proprie espressioni integranti e cardinali della composizione. A partire della seconda metà del Cinquecento, con la progressiva specializzazione nell’ambito della bottega, il paesaggio diventa un soggetto codificato come genere con le sue diverse categorie (campagne, marine, vedute urbane) e nei suoi diversi stili. Le opere in mostra rivelano come il paesaggio inizia a diventare un topos già dalla metà del Rinascimento all’interno di composizioni di soggetto sacro e profano guadagnandosi nel tempo una sua propria autonomia nella gerarchia dei generi pittorici e che, a partire da Nicolas Poussin, raggiungerà nell’arco di un secolo il suo apice con Canaletto.

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Bonifacio de’ Pitati
Madonna con Bambino tra le sante Dorotea e Caterina

Attivo a Venezia, durante il XVI secolo, Bonifacio de Pitati (Verona 1487 circa – Venezia 1553), ovvero un artista del suo ambito, propone una pittura che racconta le umane gesta all’interno di nostalgiche e verdeggianti topografie. Narrazioni poetiche costituite da incontri tra santi, pastori e animali domestici che anticipano la poetica dei Palma e dei Bassano. Come esemplificato dal dipinto Madonna con il bambino, Santa Dorotea e altra santa leggente, le sue rappresentazioni sono rigogliose di una natura dove la trasparenza atmosferica e l’energia dei luoghi trasmettono un sentimento di umana bellezza e di cristiana carità. L’Annuncio notturno ai pastori di pittore bassanesco del XVII secolo si distingue invece per gli effetti cromatici e chiaroscurali, un’opera vivida e pervasa di umano sentimento. Le storie fantasiose dei Bassano sono sapientemente articolate all’interno di paesaggi che strutturalmente hanno la stessa importanza delle figure che incorniciano. Mezzo secolo più tardi, Antonio Carneo (Concordia Sagittaria 1636 – Portogruaro 1692) fu molto apprezzato per la sua pennellata rapida e naturale, in cui combinava un gusto naturalistico e a volte rustico pervaso da una percezione irrequieta, appassionata e straordinariamente moderna del reale; tutte caratteristiche che ritroviamo nei suoi Viandanti. Carneo sperimenta una visione pittorica visionaria e spesso drammatica apportando spessore e curiosità allo sviluppo della pittura di genere seicentesca.

Nel corso del Rinascimento, come il paesaggio, la natura morta cessa di essere mero elemento sussidiario all’interno della composizione e acquista una propria identità estetica e morale. Se i primi dipinti di nature morte provenienti dai Paesi Bassi erano incentrati sul tema della caducità della vita (Vanitas) raffigurando primi piani colmi di frutta secca, teschi, e clessidre – allusioni ad una inevitabile mortalità e allegorie alla umana vanità – in Italia gli artisti scelgono invece di dipingere collezioni di fiori e frutti come allegorie di stagioni o cicli della natura e delle umane emozioni. Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, la natura morta diventa un genere molto popolare in tutta l’Italia grazie ad artisti come Annibale Carracci, Caravaggio, Michelangelo Cerquozzi, Mario dei Fiori, Vincenzo Campi e Pier Francesco Cittadini detto il Milanese (Milano 1613/1616 – Bologna 1681), che nell’opera Natura morta con frutta candita e frutta di stagione rivela abilmente il piacere di interpretare in modo “lenticolare” gli effetti della luce sulle superfici della frutta e dei tessuti, accendendo emozioni tattili e olfattive date dalla precisione dei dettagli e dalla materia pittorica.

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Antonio Canal detto il Canaletto
Veduta di Roma con la Chiesa di San Gregorio al Celio

Infine ecco quattro magnifici schizzi che rappresentano scorci della città di Venezia realizzati da Antonio Canal, detto il Canaletto (Venezia 1697 – 1768). Per quanto le sue opere siano ancora imbevute di un certo idealismo – che si traduce in composizioni sovraesposte e dalle tonalità brillanti e luminose – esse raffigurano scene quotidiane, eseguite quasi fossero scenografie teatrali, immerse in atmosfere canterine e spensierate ma dove la percezione visiva rivela una accuratezza ottica incondizionata e in completa antitesi rispetto ai moti vorticosi del Rococò ormai al suo tramonto.

 


Il ritratto: tra sacro e profano

Il ritratto è secondo solo alla pittura di storia poiché implica il rapporto con la mobilità di un essere vivente di cui il pittore deve restituire non solo la somiglianza fisiognomica dei tratti del volto, ma soprattutto coglierne l’espressione, il carattere e l’aspetto psicologico.

André Félibien des Avaux

In Italia, il ritratto come genere pittorico autonomo si sviluppa dalla fine del quattrocento quando società, cultura e religione concordano nel riconoscere l’uomo al centro dell’universo. Fino a quel momento, la pratica celebrativa propria della ritrattistica era stata prerogativa dedicata esclusivamente a santi, prelati e nobili. Dall’inizio del Rinascimento con la diffusione delle idee legate al movimento umanistico – legittimate dalla produzione artistica di maestri come Antonello da Messina, Vittore Carpaccio e Piero della Francesca – tale genere si consolida sia nella sperimentazione di composizioni di natura mistica, in quanto rappresentazioni simboliche della coscienza umana (si pensi al Salvator Mundi di Antonello da Messina della National Gallery di Londra), sia nel riconoscimento della classe borghese come riflesso di un nuovo valore attribuito all’individuo (di cui celebri esempi sono l’Autoritratto con pelliccia di Albrecht Dürer della Alte Pinakothek di Monaco e il Ritratto di Baldassare Castiglione di Raffaello conservato al Louvre). Parallelamente ai ritratti di carattere “politico-monumentali” (Tiziano, Domenichino, Ferdinand Voet, Giovan Lorenzo Bernini ecc) e ai ritratti “di apparato” (Andrea del Sarto, Raffaello, Leonardo da Vinci, Lorenzo Lotto, Tintoretto, ecc) si diffonde la pratica del ritratto allegorico e sacro, ossia la rappresentazione di personaggi biblici e mitologici raffigurati singolarmente e spesso in primo piano, usando effetti drammatici e fortemente umanizzati (di cui interpreti formidabili furono Guercino, Domenichino, Ribera, Veronese, Fetti, Morazzone, per citarne alcuni). All’inizio del XVII secolo e in conseguenza della formidabile lezione di maestri quali Caravaggio, Tiziano, Rubens e Van Dick, il genere ritrattistico, nelle sue varie accezioni, assume un carattere al contempo celebrativo, reale e altamente drammatico, diventando una vera e propria indagine introspettiva sulla natura umana, rivelando un’immagine di spiccata individualità e di profonda consapevolezza di sé.

 

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Pittore veneto
Ritratto d’uomo

Il modello iconografico del ritratto a mezzo busto è illustrato in maniera antitetica da due ritratti di anonimi personaggi realizzati a poche decadi di distanza, rispettivamente da Jacopo Tintoretto e da uno stretto seguace di Bernardo Strozzi. Il Ritratto di gentiluomo con barba, raffigura di tre quarti un gentiluomo appartenente alla classe aristocratica veneziana del tempo: Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (Venezia 1519-1594), esegue un’opera di “apparato”, di raffinata esecuzione i cui contrasti luministici rivelano un’umanità dinamica, vivida e palpitante. All’opposto, la Testa di vecchia di ambito dello Strozzi (Genova 1581/82 – Venezia 1644), rivela una visione fortemente anticonvenzionale, di un realismo crudo e antieroico e in cui l’intensità dell’indagine psicologica sembra anticipare di quasi un secolo il linguaggio spietatamente rivoluzionario di Francisco de Goya.

Il Profeta Geremia di Pier Francesco Mazzucchelli detto Morazzone (Morazzone 1573 – Piacenza? 1626) rientra invece nel genere del ritratto di natura “sacra”. L’opera presenta un primo piano imponente e compresso del profeta che sembra essere sul punto di varcare i confini della tela. I contrasti chiaroscurali tra il bianco del turbante e il volto assorto e in penombra acuiscono l’effetto drammatico, enfatizzando la sacralità del personaggio.

 

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Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone
Profetta Geremia

Infine, di natura allegorica sono le magnifiche raffigurazioni dei sensi eseguite dal pittore di origine tedesca Johann Heinrich Schönfeld (che visse molti anni in Italia tra Roma, Napoli e Venezia). Il Gusto e l’Odorato sono un chiaro esempio di combinazione e influenza tra diversi stili e tradizioni artistiche, in una originale combinazione tra realismo tedesco e caravaggismo napoletano ispirato al pittore Jusepe de Ribera.

 

Naturalismo e Classicismo: divino, mito e allegoria

A partire della seconda metà del Cinquecento e fino alla prima metà del Settecento, la pittura di soggetto storico, biblico, mitologico e allegorico è considerata al contempo simbolo di verità nell’interpretazione della realtà ed espressione della morale terrena. Le storie di personaggi sacri, di divinità mitologiche o di grandi battaglie del passato vengono commissionati nel duplice intento di celebrare il potere della Chiesa e delle grandi casate per affermare l’idea che l’uomo e la natura siano manifestazioni della perfezione divina e, in quanto tali, debbano essere immortalati mediante le arti (contrariamente alle convinzioni iconoclaste della riforma protestante). Come evidenziato dall’opera San Francesco e l’angelo di Lorenzo Lippi (Firenze 1606 -1 665) – che porta con sé gli ultimi strascichi del classicismo di Guido Reni – ne risulta una retorica che oscilla tra idealismo e realismo, in bilico tra nostalgia e struggimento. Un diverso esempio di tale dialettica si può riscontrare nell’opera l’Età del Ferro di Pietro Berettini, detto Pietro da Cortona (Cortona 1597 – Roma 1669), di cui si presenta una copia seicentesca: una composizione tipicamente barocca in cui le figure sono disposte secondo un vorticoso moto a spirale. Platealmente, il dramma del massacro si svolge tra le rovine di un antico tempio, sovrastato da cupe nubi di fumo che sembrano provenire da una distante città in fiamme. Sulla sinistra la statua di una divinità si erge imponente, ultima vestigia dell’ormai perduto mito dell’Arcadia. Quest’opera rappresenta una perfetta sintesi tra il “pathos” tipico della sensibilità barocca berniniana, esaltato dalla spettacolarità della scena e dall’intensità delle espressioni, e una visione idealistica o “eroica” delle architetture, seppur nostalgica e decadente.

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Pittore veneto
Venere, Cupido, Cerere e Bacco

Su di un piano diverso si collocano la Scena allegorica (Sine Cerere et Baccho friget Venus) eseguita da un pittore veneto attivo all’inizio del Seicento, (certamente debitore di Tiziano, considerata la somiglianza compositiva con Venere che benda Amore, della Galleria Borghese di Roma) e Venere dormiente con Amorini, del maestro Daniel Seiter (Vienna 1647 – Torino 1705). Entrambi i dipinti sono realizzati seguendo i principi del modello letterario classico espresso nelle opere di Virgilio e di Ovidio in cui viene celebrato un modello di vita pastorale e bucolica ispirata al concetto di “Arcadia”; una nostalgica evocazione di un tempo perduto in cui uomo e natura coesistevano in perfetta armonia.

All’opposto, Scena amorosa di Pietro Muttoni detto Pietro della Vecchia (Venezia 1603 – 1678) esprime un’interpretazione al contempo idealistica e realistica della natura umana. Il dipinto si può definire una scena di fantasia, uno sguardo libero e spiritoso (a tratti inquietante) sulla realtà, espresso per mezzo di una forte tensione chiaroscurale di chiara ispirazione caravaggesca, seppur compensata dalle brillanti tonalità cromatiche e dai morbidi contorni.

 

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Pietro Muttoni detto Pietro della Vecchia
Scena amorosa

 

Tre secoli di pittura sacra: dalla Controriforma al Rococò

Lo spettacolo della fede

In seguito alla riforma protestante iniziata da Martin Lutero e al successivo Concilio di Trento (1545–1563) indetto dalla Chiesa Cattolica, i soggetti prediletti dall’arte cristiana tendono spesso ad evidenziare le differenze teologiche tra cattolicesimo e protestantesimo, concentrandosi sui misteri della fede o sui ruoli e i miracoli della Vergine e dei Santi. Al fine di minimizzare gli effetti della riforma, la chiesa romana smentisce la tesi luterana che avvalorava un’interpretazione individuale delle Sacre Scritture, stabilendo che la rivelazione divina non fosse contenuta solo nella Bibbia, ma anche nell’interpretazione che ne faceva il papa, sostenuto all’unisono dal clero. A tal fine, le commissioni per nuove architetture, opere d’arte, pale d’altare e affreschi all’interno di chiese e palazzi patrizi si moltiplicano esponenzialmente, a Roma specialmente, poi in Italia, e in seguito in tutta l’Europa. Il cattolicesimo ora crede fortemente nel potere educativo e ispiratore delle arti visive, e stabilisce dunque una serie di linee guida per la produzione di dipinti e sculture religiose che furono il fondamento per quella che divenne nota come arte controriformistica Iconograficamente la Chiesa incoraggiava la produzione di immagini drammatiche e suggestive che alludessero alle sofferenze del Cristo o che rappresentassero in modo teatrale le apparizioni della Vergine ai santi, le immagini di epifanie e di ascensioni divine, le storie di miracoli, di episodi mistici e le glorie di santi guaritori. Il tutto era finalizzato ad impressionare l’osservatore suscitando emozioni di pietà, compassione e speranza. Oltrepassando il valico iconografico tra Riforma e Controriforma, molti artisti riuscirono – grazie al loro genio – a sperimentare e sviluppare nuovi linguaggi, eludendo gli artigli dell’Inquisizione e generando nuove forme di espressione spirituale. In tale contesto, il Cristo morto sorretto dall’Angelo eseguito da Domenico Robusti, figlio di Jacopo Tintoretto nel 1595 ca., è una composizione nodale e di grande sensibilità cromatica, dalla quale emerge il corpo bianco e luminoso del Cristo morto abbandonato tra le braccia dell’angelo. L’artista crea un’immagine che incarna un vero e proprio trait d’union tra lo spirito rinascimentale del Cristo in Pietà sorretto dall’angelo di Antonello da Messina del 1476-78 (Museo del Prado) e la formidabile e struggente immagine del Cristo deposto di Bernini – qui esposto – probabilmente realizzato tra il 1660 e il 1670, in cui il grande regista del Barocco romano cattura e coinvolge completamente lo spettatore in un primo piano privo di sfondo e di ornamenti, saturo di intensa e dolorosa umanità. Diversamente innovativa è invece La visione di san Gerolamo della bottega del Guercino che introduce una nuova pittura realista e coinvolgente, realizzata per mezzo di effetti chiaroscurali e giochi luministici inediti.

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Lorenzo Lippi
San Francesco e un angelo

 

L’iconografia della luce

Se la Controriforma aveva tentato di imporre norme estetiche e culturali per controllare la produzione artistica, l’impulso sperimentale e inarrestabile di grandi maestri come Annibale Carracci, Caravaggio, Pieter Paul Rubens e Anthony Van Dyck avevano invece gettato le fondamenta per la creazione di un nuovo linguaggio, che, oscillando tra realismo e classicismo, diede origine ad un movimento artistico e culturale rivoluzionario: il Barocco. Vero e proprio dialogo tra reale e sovrannaturale, tra superfluo e necessario, il Barocco si sviluppò dapprima a Roma, orchestrato da Giovan Lorenzo Bernini e potenziato da Pietro da Cortona, Andrea Pozzo, Baciccio e Andrea Sacchi, per citarne alcuni. Incarnando l’apparato comunicativo, morale e spirituale della Chiesa cattolica, questo movimento proteiforme si diffuse attraverso la penisola italiana influenzando il fare artistico di pittori eclettici e poliedrici quali Domenico Fetti (San Francesco in meditazione), Vincenzo Spisanelli (La chiamata di sant’Andrea), Simone Brentana (Giuditta e Oloferne) o Francesco Maffei (La liberazione dell’ossessa), oltrepassando infine i confini italiani, da Parigi a Vienna, da Praga a San Pietroburgo, fino a raggiungere il continente Sud Americano.

Il Rococò: tra ragione e sentimento

Il periodo a cavallo tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento è l’epoca dei grandi monarchi europei, un periodo che esalta la razionalità a scapito della fede e del sentimento e in cui si afferma l’autonomia assoluta della ragione. Dio è immaginato come l’architetto del cosmo che solo la scienza è in grado di svelare. In arte, l’illuminismo significa un’opposizione al Barocco dimenticando gli eccessi artificiosi e i virtuosismi chiaroscurali, verso una leggerezza delle forme in composizioni simmetriche e luminose. La sperimentazione artistica si concentra su dicotomie quali ragione e sentimento, oggettivo e soggettivo, regola e libertà. L’artista afferma l’indipendenza dell’arte e sostiene la propria libertà creativa. Tra i grandi interpreti del movimento Rococò vi sono: Nicola Grassi (Maddalena e Annunciazione), Domenico Zorzi (La Vergine appare a San Gaetano), Francesco Fontebasso (La Vergine appare a san Gerolamo), Francesco Cappella detto Daggiù (Madonna con bambino) e – a rappresentanza della scuola romana – Pompeo Batoni (La Vergine con il bambino e san Giovanni Nepomuceno). Particolarmente emblematica di questo periodo è l’opera di Carlo Innocenzo Carloni (Scaria d’Intelvi 1686/87 -1775) raffigurante La Gloria di San Filippo Neri. La composizione è un bozzetto preparatorio (forse in vista degli affreschi per la chiesa di san Filippo di Lodi) e incarna pienamente lo spirito Rococò nella sua ampia e aerea composizione, arricchita dall’uso di colori preziosi e brillanti e in cui una moltitudine di personaggi si muovono attraverso arditi scorci prospettici. La maniera del Carloni sconfina nel “Rococò internazionale”, il gusto di cui Giovanni Battista Tiepolo fu l’indiscusso protagonista.

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Pompeo Girolamo Batoni
Madonna con Bambino e San Giovanni Nepomuceno

 

Un Grand Tour della grande arte italiana

La mostra “La forma del colore, da Tintoretto a Canaletto” offre allo spettatore una visione unitaria – all’interno di unico percorso espositivo – delle scuole che si svilupparono nell’Italia settentrionale a partire della seconda metà del Rinascimento fin quasi al termine del XVIII secolo. Come un microcosmico Grand Tour, la mostra presenta un numero di capolavori particolarmente rappresentativi delle maggiori scuole del nord Italia incluse: Bologna (Guercino, Giuseppe Maria Crespi), Genova (Giovanni Battista Paggi, Bernardo Strozzi, Gioacchino Assereto, Giovanni Francesco Castiglione), la Lombardia (Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, Pier Francesco Cittadini detto il Milanese) il Veneto (Bonifacio De Pitati, Jacopo e Domenico Tintoretto, Carlo Caliari, Jacopo Bassano, Francesco Maffei, Nicola Grassi, Francesco Fontebasso, Antonio Canaletto), Mantova (Giuseppe Bazzani). Ad arricchire la narrativa e la dialettica del progetto espositivo vi sono inoltre alcune opere realizzate da grandi maestri stranieri o provenienti da altre regioni italiane come Pieter Paul Rubens (Fiandre), Giovan Lorenzo Bernini, Pietro da Cortona e Pompeo Batoni (Roma) e Francesco Solimena (Napoli).